Alcune pagine tratte dal libro di Riccardo Mandelli: LE CASE DEL DESTINO





"L’Italia dei comuni e degli stati regionali aveva sempre oscillato tra la tentazione di sfruttare a fini erariali la devozione verso la dea bendata e la necessità di difendere una serie di principi morali con riflessi importanti sull’ordine pubblico. Anche se la «tassa sulla speranza» sembrava l’unico tributo pagato volentieri dai cittadini, alla fine era prevalsa l’opzione proibizionista: le istituzioni civiche si erano orientate di preferenza verso le lotterie, molto meno soggette a effetti collaterali rispetto a dadi e carte da gioco. Genova iniziò a regolamentare il lotto nel 1634, codificando l’usanza di scommettere sull’elezione dei senatori. Il sistema genovese si diffuse negli altri stati italiani, soppiantando le lotterie preesistenti. In Piemonte, a Venezia, nello Stato pontificio e a Napoli, ai nomi dei candidati a cariche pubbliche si sostituivano quelli delle ragazze povere da marito, estratte periodicamente a sorte per ricevere una somma come dote. L’unico “casinò” aperto legalmente nella penisola, tra il 1638 e il 1774, rimase così il celebre Ridotto di Venezia, teatro delle avventure di Casanova e Lorenzo Da Ponte.
Dovettero passare alcuni decenni piuttosto densi prima che un altro governo – il ducato di Lucca – ritentasse l’esperimento di una casa da gioco. Nel 1837 Carlo Lodovico di Borbone concesse a Carlo Adriano Mathis il permesso di esercitare per nove anni «il faraone, la rossa e la nera» a Bagni, nella frazione di Ponte a Serraglio. Nel ‘39 Mathis fu affiancato dal socio Edoardo De Ginestet; i due ricevettero un’estensione della licenza per Viareggio. Il gioco imperversò per qualche anno tra la comunità straniera e tra gli aristocratici italiani che iniziavano a seguire la moda del soggiorno climatico. La gente scrollava intanto la testa, mormorando che non si erano mai viste prima così tante calamità naturali. Nel 1846 il duca ordinò la chiusura dei circoli «per problemi di ordine pubblico». I biscazzieri lo citarono in giudizio. L’anno dopo Carlo Lodovico si diede alla fuga, incalzato dai liberali, e il suo trono venne assorbito in parte dalla Toscana, in parte da Modena. La vertenza con Mathis e soci, ereditata dal Regno d’Italia, si concluse solo nel 1870.
Nessun casinò, né a Bagni di Lucca né altrove: il nuovo Stato, in quel delicato settore, aveva deciso di muoversi con i piedi di piombo, ribadendo i divieti contenuti nel codice sardo. L’unica iniziativa riguardava non a caso il lotto, riordinato dal punto di vista legislativo nel novembre 1863.
Gli altri paesi europei procedevano in ordine sparso, sulla base di esigenze e situazioni differenti. Lo sfruttamento commerciale del gioco d’azzardo andava di pari passo con lo sviluppo dell’industria turistica. François Blanc, l’ideatore di Bad Homburg e di Montecarlo, aveva individuato nella triade albergo-terme-casinò il modello vincente, capace di assecondare le principali dinamiche della psiche umana: un comodo centro di soggiorno, un polo dedicato alla salute e uno all’autodistruzione. All’inizio la “cura” climatica o termale rappresentava un rimedio disperato contro la tubercolosi, ma con l’avanzare del secolo e il miglioramento delle cognizioni scientifiche il concetto si era esteso fino a sfumare in quello di svago, divertimento, benessere, relax. Sull’Adriatico si era fatto promotore del nuovo paradigma Paolo Mantegazza, medico e antropologo, autore di volumi come La fisiologia dell’amore, Le estasi umane, Il dio ignoto. Mantegazza, che da buon epicureo identificava il bene con il piacere, voleva introdurre nello stabilimento balneare uno spirito gioioso e liberatorio che gli appariva improponibile se si continuava a considerarlo come una succursale del sanatorio. Sotto la sua direzione, Rimini inaugurò nel 1873 un tempio di Igea e un grandioso Kursaal, ovvero «salone di cura», il nome pudicamente riservato ai luoghi in cui, tra un concerto e una festa, si giocava d’azzardo. Presto molte spiagge adriatiche e tirreniche ne seguirono l’esempio."

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"Campione chiuse i battenti nel marzo 1939, quando la guerra aleggiava nell’aria come un incubo e il feldmaresciallo del Reich Hermann Göring poteva concedersi qualche settimana di relax a Sanremo, giocando moderatamente e sfoggiando divise immacolate. Nel giugno 1940, con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, si fermò il casinò ligure. Quello di Venezia lo seguì poco dopo. Con l’occupazione del Principato di Monaco da parte del nostro esercito, l’unico casinò “italiano” attivo rimase Montecarlo. Dal novembre 1942 i tedeschi restarono anche lì padroni assoluti del campo. Il 15 maggio ’43 un siluro lanciato da un sottomarino inglese contro un’unità nemica esplose sulla scogliera e danneggiò «una casa da gioco»: lo Sporting d’Été, supponiamo. Il tenente James R. Drummond, che comandava il sommergibile, si guadagnò la fama di The man who broke the bank at Monte Carlo, come nella vecchia, popolare canzone dedicata a un giocatore che aveva sbancato quel casinò. Nel ‘44 Drummond sprofondò negli abissi con tutto il suo equipaggio.
Dopo la liberazione il paese ribolliva di soldati e civili uniti da una gran voglia di dimenticare le sofferenze degli ultimi anni: musica, alcol, risse, vendette, fame, prostitute, ruffiani, volontà di riscatto, progetti di rivoluzione sociale. E gioco d’azzardo. «Il paese, oggi, è una sola bisca, dalla Alpi alla Sicilia» protestava alla fine del ‘45 il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, davanti alle delegazioni di Sanremo, Venezia, Rapallo, Viareggio, Gardone ecc. che bussavano al suo ufficio reclamando il riconoscimento dei vecchi diritti in materia di gioco o la concessione di nuovi. In quel momento i casinò più o meno in regola saranno stati almeno quaranta, senza considerare le innumerevoli bische improvvisate. Si gettavano sul tappeto le Am-lire, la valuta introdotta dagli americani. Il ventunenne Eugenio Scalfari diresse per qualche tempo una casa da gioco a Chianciano Terme. Suo padre, funzionario del casinò di Sanremo, aveva ricevuto dalle autorità l’incarico di soddisfare le richieste che piovevano da tutta Italia, ma non riusciva a trovare nessuno per Chianciano: «Lui non voleva, insistetti sostenendo che tutto quello che sapevo me lo aveva insegnato con i suoi racconti», racconta il fondatore di “Repubblica”. «Alla fine si convinse. Chiesi in cambio due smoking, uno bianco e uno nero».
A Sanremo il Comitato di liberazione nazionale aveva aperto una sala da gioco all’Hotel Vittoria e Roma; un’altra, a cura dell’Associazione reduci dalla prigionia, era al Caffè Milano; una terza, allestita dall’Associazione partigiani, allo stabilimento balneare Morgana, mai veramente decollato come replica dello Sporting monegasco. Il casinò municipale restava sbarrato. Non che mancasse la volontà di schiodarne le vecchie porte, ma prima c’erano da risolvere alcune questioni. Angelo Belloni reclamava i diritti della concessione Sait, che non sarebbe scaduta prima del ‘48. Il Cln gli rinfacciava di averla ottenuta dal fascismo, cosa che Belloni non poteva ovviamente negare, ma nemmeno rimproverarsi: tutti i membri della Sait vantavano, chi più chi meno, benemerenze antifasciste. Negli anni del regime pochi avevano notato i loro sentimenti libertari, ma appena possibile si erano schierati dalla parte giusta, tanto che «nessun rilievo politico o morale poteva essere mosso nei loro confronti». Lo stesso Belloni, simulando fedeltà al regime, aveva in segreto ripetutamente aiutato la Resistenza; suo figlio Maurizio aveva guidato un gruppo di partigiani con il nome di battaglia di comandante Spina…"