"L’Italia dei comuni e degli
stati regionali aveva sempre oscillato tra la tentazione di sfruttare a fini
erariali la devozione verso la dea bendata e la necessità di difendere una
serie di principi morali con riflessi importanti sull’ordine pubblico. Anche se
la «tassa sulla speranza» sembrava l’unico tributo pagato volentieri dai
cittadini, alla fine era prevalsa l’opzione proibizionista: le istituzioni
civiche si erano orientate di preferenza verso le lotterie, molto meno soggette
a effetti collaterali rispetto a dadi e carte da gioco. Genova iniziò a
regolamentare il lotto nel 1634, codificando l’usanza di scommettere
sull’elezione dei senatori. Il sistema genovese si diffuse negli altri stati
italiani, soppiantando le lotterie preesistenti. In Piemonte, a Venezia, nello
Stato pontificio e a Napoli, ai nomi dei candidati a cariche pubbliche si
sostituivano quelli delle ragazze povere da marito, estratte periodicamente a
sorte per ricevere una somma come dote. L’unico “casinò” aperto legalmente
nella penisola, tra il 1638 e il 1774, rimase così il celebre Ridotto di
Venezia, teatro delle avventure di Casanova e Lorenzo Da Ponte.
Dovettero passare alcuni decenni piuttosto
densi prima che un altro governo – il ducato di Lucca – ritentasse
l’esperimento di una casa da gioco. Nel 1837 Carlo Lodovico di Borbone concesse a Carlo Adriano Mathis il permesso di
esercitare per nove anni «il faraone, la rossa e la nera» a Bagni, nella
frazione di Ponte a Serraglio. Nel ‘39 Mathis fu affiancato dal socio Edoardo
De Ginestet; i due ricevettero un’estensione della licenza per Viareggio. Il
gioco imperversò per qualche anno tra la comunità straniera e tra gli
aristocratici italiani che iniziavano a seguire la moda del soggiorno
climatico. La gente scrollava intanto la testa, mormorando che non si erano mai
viste prima così tante calamità naturali. Nel 1846 il duca ordinò la chiusura
dei circoli «per problemi di ordine pubblico». I biscazzieri lo citarono in
giudizio. L’anno dopo Carlo Lodovico si diede alla fuga, incalzato dai
liberali, e il suo trono venne assorbito in parte dalla Toscana, in parte da
Modena. La vertenza con Mathis e soci, ereditata dal Regno d’Italia, si
concluse solo nel 1870.
Nessun casinò, né a
Bagni di Lucca né altrove: il nuovo Stato, in quel delicato settore, aveva
deciso di muoversi con i piedi di piombo, ribadendo i divieti contenuti nel
codice sardo. L’unica iniziativa riguardava non a caso il lotto, riordinato dal
punto di vista legislativo nel novembre 1863.
Gli altri paesi europei procedevano in ordine
sparso, sulla base di esigenze e situazioni differenti. Lo sfruttamento commerciale del gioco d’azzardo andava di pari
passo con lo sviluppo dell’industria turistica. François Blanc, l’ideatore di Bad Homburg e di Montecarlo, aveva
individuato nella triade albergo-terme-casinò il modello vincente, capace di
assecondare le principali dinamiche della psiche umana: un comodo centro di
soggiorno, un polo dedicato alla salute e uno all’autodistruzione. All’inizio
la “cura” climatica o termale rappresentava un rimedio disperato contro
la tubercolosi, ma con l’avanzare del secolo e il miglioramento delle
cognizioni scientifiche il concetto si
era esteso fino a sfumare in quello di svago, divertimento, benessere, relax.
Sull’Adriatico si era fatto promotore del nuovo paradigma Paolo Mantegazza,
medico e antropologo, autore di volumi come La
fisiologia dell’amore, Le estasi
umane, Il dio ignoto. Mantegazza,
che da buon epicureo identificava il bene con il piacere, voleva introdurre
nello stabilimento balneare uno spirito gioioso e liberatorio che gli appariva
improponibile se si continuava a considerarlo come una succursale del
sanatorio. Sotto la sua direzione, Rimini inaugurò nel 1873 un tempio di Igea e
un grandioso Kursaal, ovvero «salone di cura», il nome pudicamente riservato ai
luoghi in cui, tra un concerto e una festa, si giocava d’azzardo. Presto molte
spiagge adriatiche e tirreniche ne seguirono l’esempio."
…………………………………………………………………………
"Campione
chiuse i battenti nel marzo 1939, quando la guerra aleggiava nell’aria come un
incubo e il feldmaresciallo del Reich Hermann Göring poteva concedersi qualche
settimana di relax a Sanremo, giocando moderatamente e sfoggiando divise
immacolate. Nel giugno 1940, con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, si fermò
il casinò ligure. Quello di Venezia lo seguì poco dopo. Con l’occupazione del
Principato di Monaco da parte del nostro esercito, l’unico casinò “italiano”
attivo rimase Montecarlo. Dal novembre 1942 i tedeschi restarono anche lì
padroni assoluti del campo. Il 15 maggio ’43 un siluro lanciato da un
sottomarino inglese contro un’unità nemica esplose sulla scogliera e danneggiò
«una casa da gioco»: lo Sporting d’Été, supponiamo. Il tenente James R.
Drummond, che comandava il sommergibile, si guadagnò la fama di The man who broke the bank at Monte Carlo,
come nella vecchia, popolare canzone dedicata a un giocatore che aveva sbancato
quel casinò. Nel ‘44 Drummond sprofondò negli abissi con tutto il suo
equipaggio.
Dopo la liberazione il paese ribolliva di
soldati e civili uniti da una gran voglia di dimenticare le sofferenze degli
ultimi anni: musica, alcol, risse, vendette, fame, prostitute, ruffiani,
volontà di riscatto, progetti di rivoluzione sociale. E gioco d’azzardo. «Il
paese, oggi, è una sola bisca, dalla Alpi alla Sicilia» protestava alla fine
del ‘45 il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, davanti alle
delegazioni di Sanremo, Venezia, Rapallo, Viareggio, Gardone ecc. che bussavano
al suo ufficio reclamando il riconoscimento dei vecchi diritti in materia di
gioco o la concessione di nuovi. In quel momento i casinò più o meno in regola
saranno stati almeno quaranta, senza considerare le innumerevoli bische
improvvisate. Si gettavano sul tappeto le Am-lire, la valuta introdotta dagli
americani. Il ventunenne Eugenio Scalfari diresse per qualche tempo una casa da
gioco a Chianciano Terme. Suo padre, funzionario del casinò di Sanremo, aveva
ricevuto dalle autorità l’incarico di soddisfare le richieste che piovevano da
tutta Italia, ma non riusciva a trovare nessuno per Chianciano: «Lui non
voleva, insistetti sostenendo che tutto quello che sapevo me lo aveva insegnato
con i suoi racconti», racconta il fondatore di “Repubblica”. «Alla fine si
convinse. Chiesi in cambio due smoking, uno bianco e uno nero».
A Sanremo il Comitato di liberazione
nazionale aveva aperto una sala da gioco all’Hotel Vittoria e Roma; un’altra, a
cura dell’Associazione reduci dalla prigionia, era al Caffè Milano; una terza,
allestita dall’Associazione partigiani, allo stabilimento balneare Morgana, mai
veramente decollato come replica dello Sporting monegasco. Il casinò municipale
restava sbarrato. Non che mancasse la volontà di schiodarne le vecchie porte,
ma prima c’erano da risolvere alcune questioni. Angelo Belloni reclamava i
diritti della concessione Sait, che non sarebbe scaduta prima del ‘48. Il Cln
gli rinfacciava di averla ottenuta dal fascismo, cosa che Belloni non poteva
ovviamente negare, ma nemmeno rimproverarsi: tutti i membri della Sait
vantavano, chi più chi meno, benemerenze antifasciste. Negli anni del regime
pochi avevano notato i loro sentimenti libertari, ma appena possibile si erano
schierati dalla parte giusta, tanto che «nessun rilievo politico o morale
poteva essere mosso nei loro confronti». Lo stesso Belloni, simulando fedeltà
al regime, aveva in segreto ripetutamente aiutato la Resistenza; suo figlio
Maurizio aveva guidato un gruppo di partigiani con il nome di battaglia di
comandante Spina…"